Pudenda

Aidoia | Αἰδοῖα

INSULTO

Commedia
Erudizione
Ricezione
Traduzione e messa in scena

Abstract di Pudenda

Dalle numerose metafore agricole per gli organi sessuali maschili e femminili che sono presenti in Aristofane emerge uno dei tratti che caratterizzano la commedia greca nella sua fase arcaica: la libera espressione dell’oscenità. Una peculiarità che isola il linguaggio della commedia ostacolandone non a caso la ricezione successiva, che si dispiega dalla produzione letteraria successiva, all’erudizione tarda, alle traduzioni contemporanee. Attorno ad un cospicuo numero di termini (σῦκον «fico», ἀμοργίς, «tessuto di lino»; βάλανος, «ghianda»; ἐρέβινθος, «cece»; κριθή, «orzo», κόκκος, «chicco»; εὕστρα, «orzo abbrustolito»; μύρτον, «bacca di mirto»; ῥοδόν, «rosa»; βλήχων, «puleggio»; κῆπος, «giardino»; λόχμη, «boscaglia»; νάπος, «valle boscosa»; πεδίον, «pianura») Aristofane offre metafore sessuali che stentano a sopravvivere dopo l’Archaia. Significativo, in particolare, è il caso di ἐρέβινθος, «cece», per il fallo eretto che non produce, nella letteratura successiva, una significativa risemantizzazione, a fronte invece di una presenza notevole nelle commedie dell’Archaia. Allo stesso modo, l’erudizione antica denota difficoltà non lievi nel comprendere il linguaggio osceno della commedia: gli scolii non di rado immaginano metafore oscene dove esse non sono presenti e per converso mancano di notare evidenti allusioni. Non sono liberi dalle difficoltà degli antichi i traduttori moderni: in palese contrasto con l’acceso interesse per le dinamiche del linguaggio osceno che emerge dalla letteratura secondaria, le traduzioni italiane si rifugiano spesso nell’eufemismo o in una traduzione letterale che, dove manca una corrispondente risemantizzazione dell’elemento vegetale in italiano, depotenzia il turpiloquio comico.

[Mario Regali 2016]

I pudenda nella Commedia

La presenza costante del fallo scenico e degli attributi sessuali femminili nei body costumes comici [cfr. Compton-Engle (2015, 17-38)] indica come l’oscenità fosse un elemento essenziale e caratterizzante l’archaia. Forse anche a causa dell’immediato impatto osceno del codice visivo, il registro linguistico offre invece una costante tendenza all’innovazione rispetto all’uso comune, con numerosi fenomeni di trascinamento linguistico di termini che, nel nuovo contesto metaforico costruito dal poeta comico, assumono nuovi significati allusivi alla sfera sessuale [cfr. Henderson (1991, 2)].

Nella Lisistrata, una delle donne che tentano di disertare dal progetto utopico di Lisistrata sostiene di dover tornare a casa perché ha lasciato della lana di Amorgo, ἀμοργίς, ancora non’cardata, ἄλοπος (vv. 735-741). Mentre per Henderson (1991, 118) l’ἀμοργίς è metafora del fallo eretto, l’allusione sessuale appare costruita invece intorno al gesto del cardare, che secondo Mastromarco-Totaro (2006, 381) è mimato da Lisistrata mentre nega alla donna il permesso di tornare a casa. La lana non cardata non sembra quindi di per sé una metafora sessuale, bensì l’immagine offre l’occasione per costruire un doppio senso osceno legato al gesto del cardare. Le altre occorrenze di ἀμοργίς in commedia non mostrano un analogo impiego metaforico del termine: nella Lisistrata siamo quindi di fronte ad una probabile innovazione di Aristofane all’interno del patrimonio comico di metafore oscene.

In modo analogo, Aristofane risemantizza, ancora nella Lisistrata, il termine βάλανος «1. ghianda 2. stanghetta di ferro, spillone (a forma di ghianda)» con un’immagine articolata: un marito chiede all’orafo di rimettere al più presto lo «spillone», βάλανος, della collana della moglie nella fessura da cui è uscito (vv. 407-413). Il termine è sottoposto quindi ad una doppia traslazione: da ghianda a stanga di ferro (a forma di ghianda) impiegata per le serrature, quindi a organo maschile. Dalle opere biologiche di Aristotele (si veda la sezione 3) sembra emergere un uso canonico di βάλανος per «glande» che poi passerà al lessico tecnico latino: non è da escludere che il passo della Lisistrata rinnovi la metafora popolare della ghianda-glande, che riemergerà in Aristotele, tramite il gioco semantico sulla ghianda-spillone. Non sembrano riconducibili infatti alla metafora sessuale, come invece sostiene Henderson (1991, 119) né il verbo βαλανόω «chiudere con il chiavistello a forma di ghianda», che nelle Ecclesiazuse è impiegato in una elaborata metafora scatologica [vv. 361-371, cfr. Capra (2010, 207-208)], né tantomeno βαλανεύω che nella Lisistrata ha l’accezione consueta di «scaldare il bagno» (v. 337).

Kριθή «orzo» ha un chiaro significato sessuale nella Pace (vv. 965-967) mentre diversamente da quanto ritengono Henderson (1991, 120) e Dunbar (1998, 239, 260) non sembra del tutto perspicua la metafora sessuale negli Uccelli (506, 565) dove il termine ricorre al plurale. Se l’impiego metaforico di κριθή fosse isolato nella Pace, sarebbe forse possibile pensare ad un’ulteriore invenzione linguistica di Aristofane. Di maggiore semplicità appare l’uso metaforico di ἐρέβινθος «cece»: la rapidità della battuta degli Acarnesi (v. 801) sembra presuppore un’immediata comprensione del doppio senso da parte del pubblico, così come – nel catalogo dei beni che la Protagonista delle Ecclesiazuse espone quale frutto futuro dell’utopia – l’effetto comico è prodotto solo dalla positio princeps occupata da ἐρεβίνθους (v. 606), senza alcun bisogno di ulteriori indicazioni (cfr. anche Eccl. 45; l’uso prosegue nella Mese come testimonia Sophil. fr. 9,2 K.-A.). In modo analogo, nelle Raneil nesso ἐρεβίνθου δράσσεσθαι «agguantarsi il cece» indica la masturbazione (v. 545; cfr. Mastromarco-Totaro 2006, 613).

Per quanto riguarda l’organo femminile, conferma la tendenza dell’archaia all’innovazione linguistica l’assenza del canonico ἰσχάς «fico secco», già presente in Ipponatte (fr. 124 W.2), nell’intera produzione comica (cfr. Henderson 1991, 134). Non appare chiaro, in questa prospettiva, se ad esempio μύρτον sia un «common slang term» come sostiene Henderson (19912, 134) oppure un’innovazione comica sull’immagine, certo popolare, dell’organo femminile come fiore (cfr. Lys. 1006). In questa direzione conducono sia l’allusivo nome di Mirrine nella Lisistrata, sia il fr. 113 PCG dei Minatori di Ferecrate dove ῥόδον ha un chiaro significato osceno.

Un ulteriore campo semantico legato all’agricoltura che produce metafore sessuali nel lessico comico è quello di «campo, pianura, terreno da arare», impiegato come simbolo dell’organo femminile. Anche in questo caso, permane il dubbio in merito all’autonomia della lingua comica rispetto all’uso comune: nella Lisistrata(89), βλήχων «mentuccia», pianta tipica della Beozia, indica il pelo pubico della ragazza beota, dopo che Mirrine aveva già introdotto l’immagine dell’ampia pianura beota da seminare come metafora dell’organo femminile. Il termine βλήχων quindi appare come variazione ad hoc, determinata dall’origine beota della pianta, della metafora sessuale della terra da arare.

Per σῦκον, si veda la relativa voce.

[Mario Regali 2016]

I pudenda nell’erudizione

L’uso di una terminologia agricola per indicare gli organi i noessuali o, più in generale, alcune pratiche erotiche sembra essere stato un fatto piuttosto comune per la Greca antica e per la Commedia in generale (cfr. Henderson 1991, 108-150): oltre al campo semantico connesso a σῦκον(«fico»), si possono citare, per l’apparato maschile, ἀμοργίς, «tessuto di lino»; βάλανος, «ghianda»; ἐρέβινθος, «cece»; κριθή, «orzo»; per i genitali femminili, κόκκος, «chicco»; εὕστρα, «orzo abbrustolito»; μύρτον, «bacca di mirto»; ῥοδόν, «rosa»; βλήχων, «puleggio»; κῆπος, «giardino»; λόχμη, «boscaglia»; νάπος, «valle boscosa»; πεδίον, «pianura». Non tutti questi termini, però, indicavano propriamente le pudende nella lingua greca, ma potevano divenire allusivi all’interno di trasparenti giochi di parole o di metafore. La ricchezza semantica di σῦκον mostra come l’eros fosse solo uno dei possibili aspetti che di questo termine potevano essere declinati: la sua analisi, comunque, mostra come alcuni oggetti e alimenti di uso quotidiano potevano dare adito a esilaranti doppi sensi per chi era abituato a vivere in campagna e di questi oggetti e alimenti faceva comunemente uso. Seguendo le orme dell’analisi di Henderson, suddivideremo in due categorie i restanti termini di origine agricola che indicano, da una parte i feminina pudenda; dall’altra, i virilia.

virilia pudenda

Di questi ultimi un esempio è l’uso che, nella Lisistrata, si fa del termine ἀμοργίς, che indica il «tessuto di malva»: ai vv. 735-739, che seguono la secessione delle donne scioperanti sull’acropoli, una donna annuncia di voler lasciare temporaneamente la cittadella per occuparsi dell’ἀμοργίςlasciata a casa. «Dopo aver scorticato» – l’oggetto di ἀποδείρασ’(α) è significativa­mente sottinteso – subito ella tornerà dalle sue compagne (v. 739): il gioco di parole si basa sul fatto che il verbo ἀποδέρω può riferirsi sì alla gramolatura del lino, ma può anche suggerire un icastico gioco allusivo al membro virile e, soprattutto, all’accop­piamento, considerato che – secondo lo scolio ad locum – dalla malva si ricava una tintura di colore rossastro [cfr. schol. Ar. Lys. 735: ἐπὶ τοῦ ἀνδρείου παίζει, ὅτι καὶ βάμμαγίνεται ἐξ αὐτῆς (i.e. ἀμοργίδος) ἐρυθρόν].

Il termine βάλανος, «ghianda» oppure «stanghetta», è foriero di maggiori doppi sensi rispetto all’esempio precedente. Sempre nella Lisistrata, ai vv. 410-413, il probulo riporta una sua conversazione con un orefice: dato che la collana della moglie si è rotta, egli raccomanda all’artigiano di andare da lei e di ripararle il monile, conficcando (v. 413 ἐνάρμοσον) la stanga (τὴν βάλανον). La frase, ovviamente, fa riferimento al fatto che la stanghetta che tiene insieme le pietre si è sfilata dal buco (v. 410 ἡ βάλανοςἐκπέπτωκεν ἐκ τοῦ τρήματος), ma lo scolio al v. 413 (cfr. Suda β 66) spiega – se ce ne fosse bisogno – come l’intero passo abbia un duplice senso, poiché βάλανος può essere la «stanga» dei genitali, oltre a quella da infilare nell’anello della collana. Il termine βάλανος, in sostanza, potrebbe non avere un senso propriamente sessuale, ma solo all’interno dell’icastica immagine creata da Aristofane: si noti, però, che κύτταρος (la «cella dei favi») è spiegato da Esichio (κ 4747, cfr. κ 4639) anche come «ghianda» dei genitali, con possibile allusione ai testicoli (κύτταροι· … καὶ τῶν αἰδοίωναἱ βάλανοι). È possibile, dunque, che l’allusione erotica fosse in greco strettamente connessa a questo termine. Va rilevato, a questo proposito, che ai vv. 1130-1139 il Coro della Pace dichiara di amare il fatto d’abbrustolire i ceci (cfr. infra), di mettere la ghianda della quercia sul fuoco e, approfittando del fatto che la moglie fa il bagno, di baciare la servetta tracia: lo schol. vet. 1137 chiarisce che φηγός («quercia» o «ghianda») possa alludere velatamente alle pudende, poiché alcuni le chiamano appunto βάλανος.

Altri due termini ‘agricoli’ sono riconducibili più propriamente alle pudende maschili, al di là del gioco di parole in cui essi sono inseriti, ossia ἐρέβινθος e κριθή. Come sottolineano Esichio (ε 5683), il lessico di Fozio (ε 1902) e la Suda (ε 2919), ἐρέβινθος, il «cece», poteva indicava anche il membro virile. Come gli esempi precedenti, anche questo termine consentiva divertenti doppi sensi. Al v. 801 degli Acarnesi, il Megarese, giunto ad Atene per vendere le proprie figlie camufatte da porcelline, esalta le qualità della sua ‘merce’: Diceopoli, allora, chiede alle stesse giovani se esse mangino ceci e fichi secchi (v. 802 ἰσχάδας). La scena si fonda sul fatto che la χοῖρος, la «porcella», designa in greco le pudende femminili, come spiega lo scolio vetus 781, sì che la scena dei vv. 799-803 può anche alludere agli appetiti sessuali delle ragazze, dato che il cece indica i genitali maschili (cfr. schol. vet. 801) e i fichi, in particolare quelli secchi, fanno riferimento ai testicoli (cfr. schol. vet. 802a II). Anche gli scoli vetera alle Rane spiegano ἐρέβινθος come virilia pudenda (schol. vet. 545a), un «cece» che Dioniso si dovrebbe afferrare, qualora Santia prendesse le veci del padrone e vivesse mollemente, baciando una ballerina (l’immagine ricorda i vv. 707-709 dell’Ecclesiazuse sopra analizzati). L’erudizione antica, poi, considerava la battuta del Coro ai vv. 1391-1396 delle Nuvole come allusiva alla sfera erotica: a seguito del diverbio fra Strepsiade e Fidippide, il giovane si appresta a parlare e, se lo farà per bene, il Coro non stimerà di un cece la pelle dei vecchi. Lo scolio vetus 1396b così come il Triclinianum, Tommaso Magister, gli anonyma recentiora e Tzetzes considerano ἐρέβινθος come un riferimento ai genitali maschili, evocando fra l’altro il concetto di risparmio (e.g. τοῦ αἰδοίου φεισαίμεθα ἄν dello schol. rec. 1396b); lo scolio recentius 1396c, inoltre, spiega che il locutore lascerà la pelle delle pudende a loro, cioè presumibilmente ai giovani (τῶν αἰδοίων τὸ δέρμακαταλείψομεν αὐτοῖς). Tale esegesi del passo è ripresa anche dalla voce della Suda (ε 2919) poc’anzi citata, che spiega ἐρέβινθος appunto con τὸ τοῦ ἀνδρὸς αἰδοῖον, citando poi il passo delle Nuvole in questione. A meno che il greco conoscesse una espressione similare a quella volgare dell’italiano «non valere un etc.», è presumibile che qui gli scoli sovraintendano: il Coro, infatti, sembra semplicemente alludere a un elemento, il cece, di poco valore. Lo scarso valore del cece può emergere dal v. 45 delle Ecclesiazuse: qui si dice che chi arriverà in ritardo pagherà tre boccali di vino e una misura di ceci, una ‘multa’ comicamente esagerata, ma visibilmente non troppo onerosa. Se lo scolio ad locum spiega come i ceci abbrustoliti potessero fungere da accompagnamento al vino, Vetta (1989, 149) chiarisce come tali ingredienti fossero quelli tipici del simposio rustico, che chiaramente non comportava una spesa eccessiva.

Se, in alcune occasioni, gli scoli vedono allusioni oscene ove non vi sono, in altre non colgono giochi metaforici probabilmente evidenti agli spettatori. Un esempio interessante di ciò è rappresentato da un passo degli Uccelli, in cui Pisetero afferma che il cuculo anticamente regnava sull’Egitto e sulla Fenicia: «quando diceva “cucù”, tutti i Fenici andavano a mietere grano e orzo (τὰς κρίθας) nei campi (ἐν τοῖς πεδίοις)» (vv. 504-506). Gli scoli relativi ai vv. 504-506 non colgono la palese allusione sessuale: l’orzo (κριθή) e la pianura (πεδίον, cfr. infra), infatti, potevano essere referenti rispettivamente per i genitali maschili e per quelli femminili (cfr. Zanetto 1987, 225). Più perspicaci sono gli scoli vetera ab al v. 507, in cui Euelpide così commenta la battuta di Pisetero: «ecco dunque il vero significato dell’espressione “cucù, sprepuziati, andate in camporella”» (v. 507 κόκκυ, ψωλοὶ πεδίονδε). Gli scoli, a questo proposito, evocano sì un im­pro­babile proverbio fenicio, ma almeno il 507b ne coglie il doppio senso osceno, fra l’altro facilmente desumibile da ψωλός, «circonciso». Più acuti sono gli scoli αβ al v. 565 della stessa commedia, dove si prescrive che sia la folaga, la φαληρίς, a sacrificare orzo in onore di Afrodite: gli scoli in questione – da una parte – spiegano che il poeta ha scelto questo uccello per la sua assonanza con φάλλος, mentre – dall’altra – chiariscono che è costume sacrificare del frumento ad Afrodite, perché esso, una volta bollito, favorirebbe l’accoppiamento (οἱ ἑφθοὶ πυροὶ πρὸς συνουσίανἐγερτικοί). Si noti, a proposito di quest’ultima notazione, che, di sovente, ad Afrodite erano effettivamente fatte offerte incruente (cfr. Pirenne-Delforge 1994, 382ss.). Sul doppio senso insito nel termine κριθή gioca anche la scena dei vv. 956-966 della Pace. Trigeo deve consacrare l’altare di Teoria e, come richiede il costume rituale greco (cfr. schol. vet. 957), domanda al servo di lanciare orzo sugli astanti: Trigeo si stupisce della velocità con cui il servo compie questa azione, ma quest’ultimo assicura che tutti gli spettatori hanno già l’orzo, mentre le donne lo avranno a sera dai mariti. Lo scolio vetus 967a spiega che il passo si fonda sul valore ambiguo di κριθή, con cui – oltre a «orzo» – si indicano i genitali maschili; per quelli femminili, invece, si usa μύρτον, «mirto» (cfr. infra). Lo scolio vetus 967b aggiunge che κριθή è il termine osceno per πέος, il «membro virile». Non è un caso, allora, che, secondo Esichio (κ 4106), κρίθων fosse un soprannome per un uomo adultero, lemma che forse è di origine comica.

feminina pudenda

I termini gergali tratti dal mondo agricolo e che avevano come referente le pudende femminili sembrano essere in numero superiore rispetto a quelli che indicano i genitali maschili. Quello che più propriamente designava il γυνακεῖον αἰδοῖον era μύρτον, la «bacca del mirto» o il «mirto» stesso (detto più propriamente μυρσίνη): lo scolio vetus 967a alla Pace, come abbiamo visto, ne fa menzione. Se si segue la tradizione esegetica testimoniata dalla Suda (μ 1462), a cui si connettono Fozio (μ 611) e Esichio (κ 2917), e che deriva dal trattato De corporis humani appellationibus di Rufo Efesio (147,5-11), μύρτον avrebbe indicato le pudende nel loro complesso o una sua parte centrale, mentre le labbra sarebbero state dette μυρτόχειλα. Se μύρτον era dunque uno dei termini usuali per indicare i genitali femminili (cfr. schol. vet. Ar. Eq. 964a μύρτον δὲ ἐκάλουν οἱ παλαιοὶ τὸ γυναικεῖον αἰδοῖον), il lemma della Suda (μ1461) che precede quello appena parafrasato connette questo termine direttamente ad Aristofane, in particolare ai vv. 1004-1006 della Lisistrata, in cui l’araldo spartano dice che le donne non permettono agli uomini di toccar loro il μύρτον, glossato dallo scolio al v. 1004 con γυνακεῖον μόριον. Meno evidente è una possibile allusione sessuale nella seconda parabasi degli Uccelli (vv. 1099-1101), in cui il Coro afferma di cibarsi, in primavera, delle virginee e candide bacche di mirto (παρθένια λευκότροφα μύρτα) e dei giardini delle Cariti (Χαρίτων … κηπεύματα). Gli scoli non sembrano cogliere la sfumatura erotica, sebbene sia μύρτον che κηπεύματα (cfr. Henderson 1991, 135) potrebbero suggerirla: lo scolio vetus 1099b (ripreso da Tzetzes) dice semplicemente che le donne e le ragazze amano mangiare le bacche di mirto, mentre il vetus 1100 spiega λευκότροφα con λευκὰ καὶ τρυφερά, ossia tali bacche sarebbero «bianche e delicate», perché non ancora mature (τοιαῦτα γάρ εἰσι μήπωπεπανθέντα). Eppure, l’aggettivo λευκότροφος, che significa piuttosto «che cresce bianco», appare sinceramente inadeguato per le bacche, che sono solitamente di colore bluastro – vi sono, però, anche alcune varietà di colore bianco – mentre sarebbe conveniente per il fiore, che è però difficile ritenere sia considerato dagli uccelli come un cibo; la spiegazione dello scolio al v. 1100, inoltre, non pare perspicua, dato che la tenerezza delle bacche non pare associabile a un frutto non maturo. Bianchi, come si accennava, sono i fiori del mirto, che possono ricordare vagamente quelli della rosa (cfr. infra): entrambi, del resto, «reflétaient, au dire de certains textes anciens, le mystère charnel de la femme», come ricorda Pirenne-Delforge (1994, 380). Possibile, allora, che i versi siano veramente un’allusione erotica, suggerita – oltre che dal concomitante κηπεύματα –  non solo dall’aggettivo παρθένιον – le ragazze nubili sono poeticamente sempre al centro dei desideri erotici – ma anche λευκότροφος, se si pensa che il colore bianco contraddistingueva le donne dagli uomini e, in particolare, le pudende delle prime dai genitali dei secondi [cfr. schol. Ar. Lys. 802 μελάμπυγός τε· τοὺς λευκοπύγους ὡς γυναικώδειςἐκωμῳδουν, scilicet «(Mironide) dalle natiche nere: si prende in giro chi ha i glutei bianchi come le donne», vd. anche Henderson 1991, 211. Si noti, a questo proposito, che le donne greche erano solitamente depilate nelle zone intime]. A una possibile allusività sessuale del passo accenna cursoriamente anche Dunbar (1995, 590). Se di altri passi – e a ragione – gli scoli non notano allusioni erotiche (cfr. Lys. 632, Th. 448), una allure sessuale potrebbe avere il nome di Mirrina, che è al centro di una celebre scena di seduzione nella Lysistrata, se si pensa che con μυρρίνηo μυρσίνη si designava l’arbusto che produceva le bacche di mirto (cfr. Hsch. μ 1898).

Si è accennato, a proposito di μύρτον, al fatto che il ῥοδόν, il «fiore della rosa», possa essere allusivo all’intimità femminile. Se alcuni nome di personaggi, come Rodippe nella Lisistrata (v. 370), o alcune provenienze, come il profumo di Rodi sempre nella stessa pièce (v. 944), potrebbero essere allusivi, è uno scolio a Teocrito (11,10) che spiega come la rosa possa riferirsi ai feminina pudenda: la rosa, infatti, simboleggerebbe la giovinezza della donna, poiché la rosa e il roseto (ῥοδωνιά) indicherebbero i genitali femminili, come nella Nemesi di Cratino (fr. 116 K.-A.), in cui, fra l’altro, il locutore si compiace non solo delle rose, ma anche dei pomi, del sedano e della menta (tali elementi, fra l’altro, sono connessi alla vicenda di Adone).

Henderson (1991, 134) evoca come termini allusivi alle pudende femminili anche κόκκος. Ι due passi aristofanei in cui κόκκος compare, tuttavia, non sembrano connotati sessualmente. Nel v. 63 della Pace, Trigeo chiede a Zeus se comprende che sta riducendo a pezzi la Grecia: egli usa la metafora della melagrana che espelle i chicchi (schol. vet. 63b; cfr. Suda ε 524), la quale non pare avere alcuna connotazione erotica; il v. 364 della Lisistrata, poi, presenta il verbo ἐκκοκκίζω, in una scena in cui il corifeo minaccia la corifea, dicendole: «a furia di botte ti sgranerò questa vecchia pelle» (θενών σου ’κκοκκιῶ τὸ γέρας). Se l’immagine, ancora tratta dalla metafora della melagrana, sembra semplicemente denotare come il coro dei vecchi sia assetato di sangue (cfr. schol. 364a), è però opportuno notare che, nei versi immediatamente precedenti (vv. 362 s.), la corifea aveva avvertito il corifeo con le seguenti parole: «mi si colpisca: incasserò senza battere ciglio. Ma, poi, non ci sarà un’altra cagna che ti afferrerà i coglioni» (μή ποτ’ ἄλλη σου κύων τῶν ὄρχεων λάβηται). Possibile, allora, che le percosse promesse dal corifeo e lo «sgranellare» possa riferirsi a un amplesso di una certa violenza, soprattutto se κόκκος aveva veramente fra i suoi sensi direttamente accessibili quello di genitali femminili (τὸ γυναικεῖον μόριον), come riporta Esichio (κ 3288).

Due termini tratti dal mondo rustico, εὕστρα e ἀμφίκαυστις, potrebbero richiamare l’usanza della depilazione intima che contraddistingueva generalmente le donne greche: di questa pratica sono testimonianza i vv. 236 ss. delle Tesmoforiazuse (cfr. Mastromarco 2014, 71 n. 10). Pare che essa prevedesse l’uso di lucerne o torce per bruciare i peli. Eustazio (Od. 1446,22) chiarisce che ἀμφίκαυστις («orzo maturo», «orzo abbrustolito», da καίω, «bruciare») – di uso prettamente comico e tragico secondo lo schol. vet. Ar. Eq. 1236a III – sarebbe stato usato dai poeti comici anche per indicare i genitali femminili, mentre Cratino (fr. 409 K.-A.) potrebbe averlo adoperato per membrum virile (sic Kassel e Austin al locum; cfr. Hsch. κ 1923 Κρατῖνος δὲ ἐπὶ τοὺ μορίου ἔταξεν αὐτό, scilicet ἀμφίκαυστις. Se in Phot. α 1332 si dice semplicemente che il termine per alcuni indica le pudende, Eustazio aggiunge che Cratino avrebbe parlato di ὀσφύς, «lombo», non di αἰδοῖα). Di ἀμφίκαυστις sarebbe stato sinonimo εὕστρα, che, sempre secondo Eustazio (Il. 1146,30), sarebbe il luogo in cui si strinano i maiali (da εὕω, «far abbrustolire», cfr. schol. Ar. Eq. 1236acd). In sostanza, è possibile che εὕστρα e ἀμφίκαυστις indichino i feminina pudenda depilati, sebbene la documentazione non risulti chiarissima.

L’usanza della depilazione è sottintesa anche al v. 89 della Lisistrata, in cui Calloniche dice che la donna della Beozia ha depilato (παρατετιλμένη) con finezza (κοψότατα) il puleggio (τὴν βλήχω). Lo scolio 89b chiarisce che il puleggio, detto più comunemente «mentuccia», indica le pudende femminili: lo scolio 89a spiega κοψότατα, dicendo che il pube di Calloniche risulterebbe composto (κομψῶς ἔχουσα τὸ αἰδοῖον). Le capacità curative della mentuccia (cfr. supra Cratin. fr. 116 K.-A., in cui si parla di σισύμβρια, «menta»), del resto, consentiranno a Trigeo di accoppiarsi con Opora senza danno, nonostante il lungo digiuno (Pax 710-712). Se la scena gioca sia sul piano alimentare che sessuale (cfr. schol. vet. 711 κατελάσας· ἀντὶ τοῦ «συνουσιάσας»), gli scoli vetera al v. 712 chiariscono che l’infuso di puleggio era ritenuto un rimedio contro la nausea e la pesantezza di stomaco. È interessante notare che la Suda (β339 s.v. βληχωνία), che riprende questa tradizione esegetica, considera Opora una πορνή, una «prostituta». Se Suda β 338 ritiene che Aristofane chiami βλήχων il pube (τὸ ἐφήβαιον), è plausibile che ciò sia tratto dal passo della Lisistrata poc’anzi analizzato, in cui evidentemente il puleggio è metaforico per i peli pubici: in sostanza, non è detto che tale pianta fosse direttamente collegabile alle pudende in greco, perché nei due casi analizzati, soprattutto nel primo, tale accezione è direttamente ricavabile dal contesto.

L’idea di «erbetta», «cespuglio vel similia che ῥοδωνιά o βλήχων possono evocare è insita anche in λόχμη, «boscaglia». Se in Av. 207, dove Pisetero invita l’upupa a entrare nella boscaglia e a svegliare l’usignola, gli scoli non notano alcuna allusione erotica, essa è lampante in Lys. 800, passo di cui si è già trattato in precedenza per le scure natiche maschili contrapposte a quelle bianche delle donne. Le vecchie esclamano ai vecchi, che dichiarano di volerle baciare e, alzata evidentemente la gamba, colpire col piede: «com’è folto il cespuglio che hai» (vv. 777-800). Lo scolio 800a propone come oggetto di ἀντείνας («avendo sollevato»), assente a testo, τὸ σκέλος («gamba») oppure τὸ αἰδοῖον, probabilmente in virtù del fatto che le donne notano immediatamente la peluria fra le gambe dei corifei: anche qui, tuttavia, λόχμη appare piuttosto come una divertente metafora allusiva che come un termine intrinsecamente connesso all’eros (fra l’altro, in questo caso, prettamente maschile, se i peli pubici sono un rivendicato segno di virilità, come sottolineano gli stessi vecchi nei versi immediatamente successivi).

A questo ambito metaforico può connettersi anche il termine νάπος, «valle boscosa», e, per contiguità di significato, anche πεδίον, «pianura». Esichio (ν 78) spiega infatti νάπος con γυναικὸς αἰδοῖον, ma la mancanza di ulteriori riferimenti non consente di comprendere se il contesto in cui era inserito originariamente il lemma fosse veramente comico. Si è invece già incontrato il termine πεδίον ai vv. 504-506 degli Uccelli, commentando gli usi di κριθή. Se gli scoli a quel passo non dicono nulla di πεδίον, lo stesso può dirsi di quelli al v. 88 della Lisistrata, in cui Mirrina dice di una donna beota: «per Zeus, la Beozia/la Beota ha proprio una bella pianura!» (trad. Caciagli). Segue, poi, la battuta relativa al puleggio di cui si è già detto. Lo scolio ad locum non coglie l’accezione erotica di πεδίον, spiegando solo che la Beozia era nota per avere delle belle pianure. Come in altri casi, anche in questo il termine πεδίον potrebbe non aver avuto intrinsecamente un valore sessuale, ma avrebbe assunto tale senso solo all’interno di una esplicita metafora che allude alla regione pubica con una terminologia consueta a una società contadina: tali esempi, in sostanza, sarebbero differenti da κριθή, forse βάλανος, ἐρέβινθος oppure da μύρτον e ῥοδόν che erano più comunemente usati per indicare rispettivamente i genitali maschili o femminili e su cui si potevano innestare giochi di parole meno diretti, come la scena di sacrificio della Pace, dove, senza la nozione dell’identità fra κριθή e pudende maschili, la battuta sull’orzo – forse – non sarebbe stata immediatamente intellegibile.  Comunque sia, un dato emerge con chiarezza: in molti casi, i termini agricoli erano polisemici e una stessa parola, quando si riferiva alla sfera sessuale, poteva alludere sia ai virilia pudenda che ai feminina, come accade per σῦκον e, forse, per ἀμφίκαυστις.

[Stefano Caciagli 2017]

I pudenda nella ricezione

Come noto, il linguaggio tecnico dell’agricoltura in commedia tende spesso a designare gli organi sessuali sia dell’uomo sia della donna tanto quanto in generale i vegetali che hanno garantito, in virtù delle forme assunte in natura, un vasto orizzonte di ispirazione per Aristofane e per la Archaia (cf. Henderson 1991). Non è difficile affermare per tutto ciò che, quando dopo la commedia si trovano riferimenti ai vegetali e al linguaggio agricolo in senso osceno, tali riferimenti possano essere debitori di una memoria drammatica. Memoria di per sé vitale e ricorrente nel complesso in merito all’equiparazione tra campo da seminare e corpo umano anche nella lingua latina. Ne offre una testimonianza di non poco conto, ad esempio, l’associazione proposta da Lucrezio tra conserere, verbo della semina, e l’azione di Venere vivificatrice nel De rerum natura (IV 1107), atque in eost Venus ut muliebria conserat arva, verso nel quale l’associazione metaforica tra semina tecnica e semina fisica gioca sulla metafora del grembo femminile come campo, unitamente alla ripresa della stessa tale immagine in Tibullo (I 8, 35-36), at Venus invenit puero concubere furtim; / dum timet et teneros conserit usque sinur, distico nel quale è indicata la facilità con la quale la dea dell’amore ispira la passione erotica nell’innamorato. Si noti perlatro che l’idea del corpo femminile come campo o giardino, kepos o kepeuma, è già attestata da Aristofane che negli Uccelli (1100) si riferisce in senso osceno al giardino delle Grazie. Vero è, tuttavia, che l’analisi delle immagini vegetali, pur produttiva ai fini dell’eredità linguistica della commedia nella produzione letteraria successiva, spinge a concludere che tali immagini con funzione metaforica, non particolarmente numerose, per lo più, come è naturale, si organizzano intorno al termine sykon. 

Una prima significativa associazione tra frutti e organi sessuali ruota intorno alla ghianda, il balanos, accostato all’organo sessuale maschile [si veda la sezione 1]. Balanos, ad esempio, designa il glans penis oltre che nella Lisistrata (410), ἐλθὼν ἐκείνῃ τὴν βάλανον ἐνάρμοσον, anche nella Historia animalium di Aristotele (493a23), καὶ τοῦ ἄρρενος αἰδοῖον, ἔξωθεν ἐπὶ τῷ τέλει τοῦ θώρακος, διμερές, τὸ μὲν ἄκρον σαρκῶδες καὶἀεὶ λεῖον <καὶ> ὡς εἰπεῖν ἴσον, ὃ καλεῖται βάλανος, nonché in Galeno (10, 381). Non è improbabile, dunque, che un’allusione alla sfera sessuale si debba scorgere anche nel balanus menzionato da Persio (IV 37). Per quanto riguarda invece l’organo femminile, dopo la commedia, è possibile ricordare il riferimento in questo senso al mirto in Luciano (Lex. 12, 21), una comune pianta che, associata al culto di Afrodite, ben presto, come la rosa, si lega al linguaggio erotico sino a codificare tramite il nome proprio Mirtile, la figura dell’etera. Un discorso a parte può essere fatto, invece, per il termine kokkos, il chicco. In commedia tale termine non compare mai, sebbene si riverberi nel verbo ekkokkiziensgranare, atto ad indicare la deflorazione femminile (ad esempio in Lisistrata 364, εἰ μὴ σιωπήσει, θενών σου ‘κκοκκιῶ τὸ γῆρας). Il kokkos, di seguito, almeno in Stratone di Sardi (XII 222, 3), finisce per indicare i genitali maschili, τῇ χερὶ τοὺς κόκκους ἐπαφώμενος, rispetto al significato attestato da Esichio per il quale kokkos rappresenta i pudenda muliebria. Il termine erebinthos, il cece, che designa il fallo eretto in non poche commedie (si considerino almeno Acarnesi 801 e Cavalieri 45) non sembra aver dato vita ad una produttiva risemantizzazione metaforica di ambito sessuale dopo la Archaia. Forse in senso osceno lo si trova in Giovenale (VI 373) nell’espressione ciceris relicti. Gli aneddoti relativi al nome di Cicerone connesso in maniera scommatica al cece riferiti da Plutarco (Vit. Cic., 1,5) hanno forse un’origine parodica ma difficilmente possono essere ricondotti ad un ambito sessuale.

[Dino De Sanctis 2016]

I pudenda nella traduzione

Mentre il tema del lessico osceno nella commedia antica è argomento largamente trattato sul piano degli studi [basti pensare a saggi capitali come Henderson (1991) e Saetta Cottone (2005)], il suo statuto all’interno delle traduzioni italiane è questione ben meno risolta. I giochi lessicali e verbali che rimandano ad ambiguità di ambito sessuale vengono non di rado depotenziati, quando non del tutto disinnescati attraverso “l’onnipresenza di verbi e sostantivi eufemistici” [Capra (2010). Cfr. anche Edwards (1991)].

Tale fenomeno è legato non tanto a una generica reticenza dei traduttori, quanto piuttosto a un’insoluta ambiguità nel destinatario della traduzione teatrale [Condello (2012)]: quest’ultima viene vista da un lato come una guida scritta per comprendere il testo antico, con l’aiuto di corpose note a piè di pagina [Pieri (2009)], dall’altro come una partitura pensata per una fruizione orale e per la recitazione. Nel primo caso (che è il più frequente nelle traduzioni pubblicate per le più rilevanti case editrici italiane a partire dagli anni ’80) il traduttore si astiene dal trovare un corrispettivo del doppio senso comico nella lingua di destinazione, relegando alla nota il compito di illustrare la natura dell’allusione. Nel secondo caso (si vedano, come esempio più significativo, i libretti pubblicati dall’INDA), il traduttore può decidere di delegare parte della portata oscena della battuta all’aspetto mimico e attorale.

Non è infrequente dunque trovarsi di fronte a traduzioni ‘edulcorate’, che riducono il potenziale del turpiloquio comico. L’utilizzo di frutta e ortaggi come metafore degli organi sessuali è più che frequente in Aristofane [si veda Henderson (1991) e Taillardat (1962)]; eppure, laddove il corrispettivo ‘vegetale’ non è altrettanto allusivo nella lingua di destinazione, raramente i traduttori propongono sostituzioni equivalenti. È il caso per esempio di ἐρέβινθος, «cece», utilizzato come metafora del membro virile per esempio in Ra. 545 e Acarnesi 801, ma quasi privo di risonanze nella lingua italiana (eppure largamente adottato nelle traduzioni).

[Maddalena Giovannelli 2016]

Bibliografia

Bellandi, F. (1995), Contro le donne. Satira VI, Giovenale, Venezia: Marsilio.

De Roguin, C.-F. (2007), “ … et recouvre d’une montagne leur cite!”: la fin du monde des heros dans les epopées homeriques, Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht.

Dionigi, I (1990), note a Lucrezio. La natura delle cose, a cura di G.-B. Conte con la traduzione di L. Canali, Milano: BUR.

Dunbar, N. [ed.] (1995) Aristophanes. Birds, Oxford: Oxford University Press.

Erren, M. (2003), GeorgicaKommentar, Heidelberg: Carl Winter.

Henderson, J. (1991) Maculate Muse, [19751, la seconda edizione differisce dalla pri- ma per gli “Addenda, Corrigenda, Retractanda”, pp. 240-252], New York- Oxford: Oxford University Press.

Hirschberger, M. (2004), Gynaikon Katalogos und Megalai Ehoiai: ein Kommentar zu den Fragmenten zweier hesiodeischer Epen, München : Saur.

Maltby, R. (2002), Tibullus. Elegies; Text, Introduction and Commentary, Cambrid- ge : Francis Cairns.

Mastromarco, G. (2014) Immaginario sessuale nella Lisistrata di Aristofane, in S.D. Olson [ed.], Ancient Comedy and Reception. Essays in Honor of Je rey Henderson, Berlin-Boston: de Gruyter, 69-81.

Müller, H. M. (1980), Erotische Motive in der Griechischen Dichtung bis auf Euripi- des, Hamburg: Buske.

Murgatoyd, P. (1980), Tybullus. A Commentary on the First Book of the Elegies, Ox- ford: Oxford Clarendon Press.

Nicolosi, A. (2007), Ipponatte, Epodi di Strasburgo – Archiloco, Epodi di Colonia (con un’appendice su P.Oxy. LXIX 4708), Bologna: Pàtron.

Nünlist, R. (1998), Poetologische Bildersprache in der frühgrechischen Dichtung, Leip- zig: Teubner.

Pirenne-Delforge, V. (1994) L’Aphrodite grecque, Athènes-Liège: Centre Internatio- nal d’Étude de la Religion Grecque Antique (Kernos Suppléments).

Taillardat, J. (1962), Les images d’Aristophanes. Etudes de langue et de style, Paris: Les Belles Lettres.

Vetta, M. [ed.] & Del Corno, D. [trad.] (1989) Aristofane. Le donne all’assemblea, Milano: Fondazione Lorenzo Valla.

Zanetto, G. [ed.] (1987) Aristofane. Uccelli, Milano: Mondadori